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Una legge contro gli allevamenti intensivi, la proposta delle associazioni ambientaliste

Un gruppo di associazioni ambientaliste ha presentato alla Camera dei Deputati una legge per fermare la produzione insostenibile degli allevamenti intensivi.

  • Gli allevamenti intensivi sono sistemi produttivi insostenibili dal punto di vista del benessere animale e della salute umana e ambientale.
  • Con il consumo di carne attuale, ogni italiano emette il doppio di CO2e di quanto farebbe con la dieta mediterranea nella sua versione originale, con un limitato consumo di carne.
  • Alcune associazioni ambientaliste hanno presentato una proposta di legge per fermare l’espansione degli allevamenti intensivi e creare sistemi alimentari a favore di animali, consumatori, piccoli agricoltori.

Una proposta di legge per cambiare gli allevamenti intensivi: l’hanno presentata il 22 febbraio scorso, in una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati, Greenpeace, Wwf Italia, Isde – Medici per l’ambiente, Lipu, Terra!. A sostegno dell’iniziativa sono intervenuti, tra gli altri, i deputati Michela Vittoria Brambilla (Noi Moderati), Eleonora Evi (Alleanza Verdi Sinistra), Carmen Di Lauro (Movimento 5 Stelle), Andrea Orlando (Partito Democratico) e il Comitato locale G.A.E.T.A. di Schivenoglia (MN).

Stop agli allevamenti intensivi: gli obiettivi della proposta di legge

L’obiettivo della proposta è cambiare il sistema produttivo degli allevamenti intensivi che, come sottolineato dai relatori, danneggia la salute, il benessere degli animali, l’ambiente e le piccole aziende. Le richieste delle associazioni ambientaliste sono:……..(Continua su:https://www.lifegate.it/proposta-legge-contro-allevamenti-intensivi)

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Gli allevamenti intensivi possono anche produrre un cocktail di agenti contaminanti, in particolare agenti patogeni come il batterio E. coli, metalli pesanti e pesticidi. Questi contaminanti rappresentano una minaccia potenziale per la nostra salute, oltre che per quella di altri animali e vegetali.

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L’allevamento intensivo inquina i terreni, le acque e i mari, contaminando la natura con tossine potenzialmente mortali.

Con migliaia di animali ammassati in luoghi chiusi, questi allevamenti intensivi sono suscettibili di creare tutta una gamma di agenti inquinanti. Queste sostanze inquinanti possono danneggiare al tempo stesso l’ambiente naturale, gli animali e le piante.

Nel 2006, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ha descritto l’allevamento intensivo come «… uno dei fattori che maggiormente contribuiscono ai più gravi problemi ambientali attuali».

Molti animali significano molto cibo

Metodi di allevamento più tradizionali sono spesso efficaci per trasformare l’erba e certe deiezioni in alimenti utili per il bestiame. Il modello di allevamento « crescita rapida, rendimento elevato » è invece molto meno efficace, perché utilizza delle quantità considerevoli di cereali e di soia ricca di proteine per rispondere alle necessità alimentari degli animali.  Le colture di cereali ricevono quantità massicce di pesticidi e di fertilizzanti ricchi d’azoto e fosforo per stimolarne la crescita, ma una gran parte di questi prodotti può diffondersi nei terreni e nelle falde freatiche.

« L’allevamento bovino americano è responsabile di circa un terzo dell’azoto e del fosforo che si riversa nelle acque dolci del paese. (Fonte: FAO, 2006) »

Molti animali significano molti rifiuti

Gli animali degli allevamenti producono ogni giorno grandi quantità di rifiuti ricchi di azoto e fosforo. Questo fatto può essere di per sé un elemento positivo: le deiezioni di origine animale possono servire da letame e reintegrare il suolo di alcune sostanze nutritive. Tuttavia, negli allevamenti intensivi, la concentrazione degli animali all’interno di capannoni chiusi significa in genere che i rifiuti sono fortemente concentrati su zone relativamente ristrette. Se questi rifiuti non vengono gestiti ed eliminati correttamente, e ciò accade spesso, finiscono nell’ambiente naturale.

« Certi grandi allevamenti producono più rifiuti grezzi della popolazione umana di una grande città americana. (Fonte: US Government Accountability Office, 2008) »

Un inquinamento potenziale

L’azoto e il fosforo possono essere all’origine di gravi problemi, per esempio quando si ritrovano nei corsi d’acqua. La loro presenza massiccia provoca la proliferazione di alghe che monopolizzano l’ossigeno presente nell’acqua, il che può uccidere le piante e gli animali, se non addirittura lasciare delle vaste «zone morte» nelle quali possono sopravvivere solo poche specie.

Una parte dell’azoto diventerà gassoso, trasformandosi per esempio in ammoniaca; ciò contribuisce ad acidificare le acque e a ridurre lo strato di ozono. Inoltre, possiamo subire delle conseguenze dirette e immediate, poiché può essere minacciata la qualità dei nostri approvvigionamenti idrici.

« L’allevamento del bestiame è responsabile di oltre il 60% delle nostre emissioni globali di ammoniaca. (Fonte: FAO, 2006)»

Altri effetti negativi

Gli allevamenti intensivi possono anche produrre un cocktail di agenti contaminanti, in particolare agenti patogeni come il batterio E. coli, metalli pesanti e pesticidi. Questi contaminanti rappresentano una minaccia potenziale per la nostra salute, oltre che per quella di altri animali e vegetali.

« Il liquame di maiale è 75 volte più inquinante dei liquami domestici grezzi. (Fonte: Archer, 1992) »

Cosa puoi fare?

L’allevamento intensivo inquina l’ambiente. Intraprendendo azioni per limitare l’allevamento intensivo, non partecipiamo semplicemente a una rivoluzione agricola e alimentare, ma combattiamo anche uno dei più urgenti problemi ambientali.

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Biodigestore, la critica di Tamino: «Il biometano è inquinante, l’economia circolare è altro»

Il professor Gianni Tamino, biologo, membro di Isde
Il professor Gianni Tamino, biologo, membro di Isde

di Lorenzo Furlani

3 Minuti di Lettura

Lunedì 5 Luglio 2021, 09:35 – Ultimo aggiornamento: 13:35Condividi

VALLEFOGLIA – La relazione in programma contraddice la narrazione comune divulgata da un coro di fonti – produttori, istituzioni, politici pressoché di tutti gli schieramenti e media – sulle virtuose funzioni della digestione anaerobica, la lavorazione degli scarti alimentari e delle potature accreditata come processo di economia circolare perché recupera dai rifiuti biometano e compost per l’agricoltura. 

La narrazione contraddetta
Il titolo è molto significativo: “La produzione di biometano è inquinante e non sostenibile”. Su questo tema il biologo Gianni Tamino, docente in pensione dell’università di Padova e membro del comitato scientifico di Isde (l’associazione dei medici per l’ambiente), aprirà stasera l’incontro pubblico “No al biodigestore di Vallefoglia” organizzato nella sala polivalente di Bottega dall’associazione Diversamente e dalla rete Pesaro Città Sostenibile, con inizio programmato alle 20,30 (forse con diretta Facebook).

«Non si può parlare di un’energia rinnovabile per quanto riguarda il biometano soprattutto quando viene prodotto dalla frazione organica dei rifiuti urbani», afferma il professor Tamino, anticipando i contenuti della sua relazione e contraddicendo sul punto l’ultimo comunicato – e, a caduta, l’intero progetto ambientale – di Green Factory, la società di Marche Multiservizi costituita per realizzare a Talacchio di Vallefoglia un digestore anaerobico da 105mila tonnellate di rifiuti all’anno: «Dai rifiuti organici il biometano, combustibile rinnovabile al 100%».

«Questo concetto – spiega Gianni Tamino – sottintende che bisogna rinnovare a monte la produzione dei rifiuti, mentre l’indicazione europea è quella di ridurre i rifiuti; si può produrre quel tipo di biometano solamente continuando a produrre rifiuti, che invece dovremmo tendenzialmente appunto ridurre. Secondo l’indicazione molto più logica dell’Unione europea non dobbiamo considerare economia circolare quella che porta al recupero di energia bensì quella che porta al recupero di materia.

Quindi dalla frazione organica dei rifiuti urbani noi dobbiamo recuperare compost senza produzione di biogas o biometano».

«Così si genera CO2»
La discriminante sono le emissioni climalteranti, ossia la famigerata anidride carbonica, principale gas che causa l’effetto serra e produce il cambiamento climatico.
«Tendenzialmente dobbiamo riciclare – argomenta Tamino – ma questa economia circolare non si ottiene producendo energia, perché l’energia si genera solo bruciando qualcosa e il biometano bruciato comporta inquinamento ed emissione di CO2. Quindi, per recuperare la materia senza inquinare, bisogna produrre direttamente il compost per l’agricoltura con la digestione aerobica, perché con quella anaerobica, ossia senza ossigeno, per ottenere il compost (come prodotto derivato, ndr) serve altra energia. Tra l’altro dal biogas al biometano occorre un passaggio, un upgrade, che comporta liberazione di altra CO2 e di sostanze inquinanti».

«Si guadagnano solo gli ecoincentivi»
Le uniche energie pulite sono quelle del sole, del vento, dell’acqua. Cosa si guadagna a produrre biometano? Niente dal punto di vista collettivo perché il biometano ottenuto è irrisorio come energia complessiva, si ottengono solo un po’ di incentivi per chi lo produce (gli utili, ndr) senza i quali il biometano è fuori mercato. L’errore sono gli ecoincentivi del governo».

All’incontro a Bottega di Vallefoglia interverranno anche Marco Grondacci giurista ambientale sul tema: “Biodigestori senza regole: il caso Vallefoglia”, Massimo Gianangeli presidente del comitato tutela salute e ambiente Vallesina su “Biodigestore e diritti dei cittadini” e Andrea Torcoletti presidente dell’associazione Diversamente su “Biodigestore: i nostri primi otto mesi di lotte”.

Da impianto di riciclo rifiuti Co2 per usi alimentari

A Asciano: riduce a 5% conferimento discarica, produce biometano

ASCIANO (SIENA), 14 marzo 2024, 13:09

Da impianto di riciclo rifiuti Co2 per usi alimentari – Notizie – Ansa.it

Incremento del riciclo di rifiuti e riduzione dal 20 al 5% del conferimento in discarica oltre alla produzione di biometano da rifiuti organici da immettere in rete, corrispondente al fabbisogno di 1800 famiglie.

E’ il nuovo impianto di riciclo dei rifiuti alle Cortine nel comune di Asciano (Siena), inaugurato questa mattina dopo 18 mesi di lavori, nel quale è installato anche un sistema di cattura dell’anidride carbonica che ha ottenuto, tra i pochissimi in Italia, la certificazione per usi alimentari della Co2 estratta.
    Di proprietà di Sienambiente, l’impianto è dotato delle più moderne tecnologie e di un sistema di trattamento delle raccolte differenziate tra i più avanzati e innovativi a livello nazionale.

Nuove tecnologie che porteranno un contributo concreto all’economia circolare con benefici ambientali in termini di riduzione di gas climalteranti per un risparmio complessivo annuo di 102.420 tonnellate di Co2, equivalente all’assorbimento di un bosco di oltre 40 ettari.

Continua su:

Da impianto di riciclo rifiuti Co2 per usi alimentari – Notizie – Ansa.it

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Allevamenti intensivi: emettono ammoniaca, inquinano l’aria e ricevono soldi pubblici

http://Allevamenti intensivi: emettono ammoniaca, inquinano l’aria e ricevono soldi pubblici – Greenpeace Italia

La nostra mappa svela chi sono e dove si trovano i maggiori emettitori di ammoniaca (NH3) beneficiari di fondi PAC

Quanti fondi pubblici nell’ambito della PAC sono destinati ai grandi allevamenti intensivi italiani che emettono più ammoniaca inquinando l’ariaLa nostra inchiesta prova a rispondere a questa domanda, svelando chi sono e dove si trovano gli allevamenti intensivi italiani segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR) che emettono maggiori quantitativi di ammoniaca (NH3), un inquinante pericoloso, e quanti fondi pubblici ricevono le aziende cui fanno capo. 

Proprio il monitoraggio delle sostanze inquinanti emesse dagli allevamenti intensivi è al centro del dibattito europeo sulla revisione della direttiva sulle emissioni industriali: dal prossimo voto del parlamento europeo dipenderà l’efficacia nel limitare l’inquinamento prodotto da queste attività.

Chiedi al Governo Italiano di bloccare la costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di frenare le conseguenze disastrose di quelli esistenti!

L’ammoniaca è un problema per la salute

Lo spandimento delle deiezioni animali sui campi possono veicolare sostanze inquinanti.

L’ammoniaca è una sostanza rilasciata principalmente dalle attività agricole che concorre in maniera importante a formare lo smog che respiriamo: una volta liberata in atmosfera questo gas si combina con alcune componenti (ossidi di azoto e di zolfo) generando le pericolose polveri fini. Dati alla mano, in Italia gli allevamenti sono la seconda causa di formazione del particolato fine (responsabili di quasi il 17% del PM2,5), più dei trasporti (14%) e del settore industriale (10%), preceduti solo dagli impianti di riscaldamento (37%). 

Mappare dove si trovano i maggiori emettitori di ammoniaca è quindi cruciale per sapere quanto è compromesso l’ambiente in cui viviamo, visto che l’elevata presenza di polveri fini comporta pesanti ricadute per la salute, come abbiamo mostrato in un precedente studio condotto con ISPRA.

La mappa degli stabilimenti che emettono più ammoniaca

Per costruire la nostra mappa, siamo partiti dal Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), che include anche gli allevamenti che dichiarano emissioni per più di 10 tonnellate di ammoniaca (NH3) l’anno . Dalla nostra inchiesta risulta che sono 894 gli allevamenti italiani che nel 2020 hanno comunicato le loro emissioni di ammoniaca al Registro europeo, corrispondenti a 722 aziende, alcune delle quali fanno capo a gruppi finanziari come il colosso assicurativo Generali, a nomi noti del food come Veronesi SpA, holding che comprende i marchi Aia e Negroni, o a grandi aziende della zootecnia come il gruppo Cascone

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La nostra mappa mostra come le regioni della Pianura Padana siano quelle maggiormente a rischio. Qui, infatti, ha sede il 90% degli allevamenti italiani che nel 2020 hanno emesso più ammoniaca. Capofila è la Lombardia, dove si trova oltre la metà degli stabilimenti che emettono grandi quantità di ammoniaca, seguita da Emilia Romagna e Veneto.

9 aziende su 10 hanno ricevuto fondi pubblici

Incrociando i dati del Registro europeo forniti da ISPRA con gli elenchi dei beneficiari dei fondi della Politica Agricola Comune (PAC), abbiamo scoperto che quasi 9 aziende su 10, tra quelle che possiedono allevamenti segnalati nel Registro hanno ricevuto finanziamenti pubblici: un totale di 32 milioni di euro nel 2020, per una media di 50.000 euro ad azienda. 

Ma quello che siamo riusciti a svelare è solo la punta dell’iceberg! Infatti, la normativa attualmente in vigore consente di monitorare, attraverso il registro E-PRTR, solo le emissioni degli stabilimenti più grandi, in grado di ospitare oltre quarantamila polli, duemila maiali o 750 scrofe, escludendo completamente gli allevamenti di bovini, nonostante siano a loro volta responsabili di rilevanti emissioni di ammoniaca e metano. Rimangono fuori anche tutte quelle aziende che, pur essendo sotto la soglia minima che obbliga alla comunicazione dei dati, concorrono alle emissioni totali del settore.

Tanto che nel 2020 il 92% delle emissioni di ammoniaca prodotte dagli allevamenti non ha trovato “responsabili” nell’E-PRTR, perché non monitorato. Questa dannosa lacuna segnala l’urgenza di monitorare e regolamentare un maggior numero di allevamenti, come previsto dalla proposta della Commissione UE di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali. Una proposta che sarà votata a breve dall’Europarlamentofortemente osteggiata da alcune forze politiche e organizzazioni di categoria che, per proteggere gli interessi di una manciata di maxi-allevamenti, stanno mettendo indirettamente a rischio la salute di milioni di persone impattate da queste attività.

Chiedi al Governo Italiano di bloccare la costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di frenare le conseguenze disastrose di quelli esistenti!

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Come protegge la salute e l’ambiente

Le polveri fini (PM2,5) sono responsabili di decine di migliaia di morti premature ogni anno: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato quasi 50.000 vittime in Italia nel solo 2019. Com’è possibile ridurre drasticamente la diffusione di queste sostanze, se, parallelamente, si continuano a finanziare i modelli zootecnici intensivi e inquinanti che le producono?

Sembra che in Italia si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati “attività insalubri di prima classe“, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni. Per farlo in modo efficace, occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei. Rimandare questi provvedimenti, significherebbe ignorare gli impatti su salute e ambiente legati all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi.

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Ferma gli Allevamenti Intensivi

Quello che mangiamo oggi determina il mondo di domani: non mettiamo il Pianeta nel piatto!Partecipa

#Agricoltura #Cibo #Inquinamento #Salute

Perché gli allevamenti intensivi
sono i più inquinanti e i più finanziati
dall’Europa “green”? E la Pianura
Padana diventa una “camera a gas”…

20 febbraio 2024

Perché gli allevamenti intensivi sono i più inquinanti e i più finanziati dall'Europa "green"? E la Pianura Padana diventa una "camera a gas"...

Sta facendo discutere che insieme a Delhi (India), Dhaka (Bangladesh) e Lahore (Pakistan), Milano sia ai primi posti per la pessima qualità dell’aria della classifica aggiornata in tempo reale dal sito svizzero IQAir. Ma non è solo il capoluogo lombardo a essere messo male, perché la Pianura Padana ormai da food valley si sta trasformando in una camera a cas e non solo a causa del traffico o delle industrie, quanto per le emissioni degli allevamenti intensivi. Sono i più inquinanti e quelli che ricevono più fondi dall’Europa e non ne parla nessuno. Ecco perché

Una volta si chiamava Gallia Cisalpina, e divenne territorio italico popoloso di colonie romane, immerse in un paesaggio morbido e bucolico. Da molto tempo oramai, la Pianura Padana si è trasformata in una vera e propria camera a gas. Sapevamo già che era una delle zone più insalubri d’Italia e d’Europa prima che ce lo confermasse il Corriere della Sera, che le auto, le industrie e il riscaldamento sono un fattore inquinante di portata enorme, che la sua conformazione morfologica non agevola il riciclo dell’aria, destino infausto, ma che una delle cause principali dell’inquinamento sia dovuto dall’alta concentrazione di allevamenti intensivi presenti, è un’informazione che spesso viene data a mezza bocca o omessa, per salvaguardare potenti interessi economici di un’industria che continua ad alimentare la credenza che la carne sia necessaria alla sopravvivenza del genere umano, anche se non è vero. Però qui lo griderò forte e chiaro: l’industria zootecnica è una delle industrie più impattanti del mondo a livello ambientale. Per farvi capire il perché, non posso non parlarvi di dati e numeri. I numeri devastanti della zootecnia intensiva, secondo i dati dell’anagrafe nazionale zootecnica, gli allevamenti in Italia sono più di 400.000, la maggior parte situati in Lombardia, Veneto, Piemonte e Emilia-Romagna. Gli allevamenti bovini (1,5 milioni di animali e quindicimila aziende) suini (oltre quattro milioni, circa la metà del totale nazionale), concentrati soprattutto in Lombardia, aggiunti a quelli avicoli, ovini e di conigli hanno reso la Pianura Padana invivibile per l’alta concentrazione di ammoniaca e metano presente in quell’area. Complessivamente, gli allevamenti causano il 79% delle emissioni di gas serra nel settore dell’agricoltura, una ripercussione ambientale che non può che aggravare il già precario equilibrio naturale, derivante dalle emissioni di gas climalteranti prodotte dai combustibili fossili, come il petrolio, il carbone e il gas

  • Legambiente Lombardia: a Milano qualità dell’aria mai così male dal 2017

Il ruolo degli allevamenti intensivi nell’inquinamento record della Pianura Padana

Greenpeace: «L’ammoniaca prodotta costituisce la seconda causa di formazione di polveri sottili, che in Italia causano ogni anno circa 50.000 morti premature»

[20 Febbraio 2024]

Dopo settimane da record per l’inquinamento atmosferico in Pianura Padana, solo a partire da oggi – quando peraltro iniziano ad essere attese condizioni meteo più favorevoli – la Regione Lombardia ha avviato le attese misure antismog, seguendo quanto già messo in campo da Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.

«Siamo al paradosso di dover attendere che si concluda un’emergenza conclamata, oltre che chiaramente prevedibile, in Lombardia così come nel resto del bacino padano, per attivare quelle procedure emergenziali che dovrebbero servire a prevenirla», dichiarano nel merito gli ambientalisti di Legambiente Lombardia.

Eppure le premesse per un’azione più tempestiva c’erano tutte: lo stesso circolo regionale del Cigno verde segnala che a Milano, due giorni fa, la centralina Arpa di via Senato segnava livelli di Pm2.5 pari a 118 microgrammi/mc come media giornaliera – un valore 24 volte più alto dei livelli raccomandati dall’Oms su base annuale – e 136 di Pm10, toccando «il picco di una crisi di inquinamento i cui livelli non sono mai stati eguagliati dal gennaio 2017».

L’assessore regionale all’Ambiente, Giorgio Maione, preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno, osservando che negli ultimi vent’anni si è registrata in Lombardia «una riduzione del 39% delle concentrazioni di Pm10 e del 45% delle concentrazioni di NO2», ma la cronaca rende evidente che picchi emergenziali continuano a capitare.

Soprattutto, nonostante un trend in miglioramento – che riguarda la qualità dell’aria in tutta Italia –, il nostro Paese resta il peggiore d’Europa per morti premature da inquinamento atmosferico, dato che l’Agenzia europea dell’ambiente documenta ben 46.800 decessi all’anno da PM2.5, altri 11.300 da NO2 e 5,100 da O3.

Gli ambientalisti si chiedono dunque perché fino ad oggi non sia stata prevista nessuna limitazione «nemmeno per l’attività che maggiormente contribuisce all’aumento del particolato sottile, ovvero lo spandimento di liquami zootecnici», in tutti i campi lombardi.

«La totale inadeguatezza delle risposte agli episodi di inquinamento di questo inizio 2024 hanno azzerato la residua fiducia verso amministrazioni evidentemente irresponsabili riguardo agli effetti sanitari dell’inquinamento – dichiara Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia – Alla luce dei fatti, le istituzioni pubbliche della Lombardia risultano evidentemente, e colpevolmente, sprovviste di strumenti per la prevenzione e gestione delle emergenze sanitarie. L’immobilismo delle istituzioni non è compatibile con i diritti fondamentali di tutela della salute dei cittadini».

I dati Arpa Lombardia messi in fila da Greenpeace per Milano parlano chiaro: se i valori di ozono, biossidi di azoto e zolfo sono rimasti entro i valori limite, nelle ultime settimane le polveri sottili Pm10 hanno avuto una media giornaliera di 100 microgrammi al metro cubo di aria, un dato decisamente preoccupante dato che il valore limite è di 50. I giorni in cui tale limite è stato superato è salito a 16 giorni sui 47 trascorsi dall’inizio dell’anno fino a sabato scorso.

Altro dato allarmante riguarda invece le Pm2.5 – le polveri sottili più pericolose – che sono risultate pari a 76 microgrammi al metro cubo, superiore al valore giornaliero di 5 microgrammi al metro cubo e di 15 su un periodo di 3-4 giorni, indicato dall’Oms.

Valori simili a quelli di Milano sono stati registrati nelle zone di pianura dai servizi ambientali di Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna.

A incidere in modo determinante sull’inquinamento atmosferico in Pianura Padana sono le condizioni geografiche locali, che la rendono un bacino racchiuso tra Alpi e Appennini dove – soprattutto in caso d’inversione termica – gli inquinanti restano schiacciati al suolo. Al contempo, ovviamente questi inquinanti non arrivano dal nulla.

«Gli allevamenti intensivi, insieme al riscaldamento, sono tra i principali responsabili dell’aumento dei livelli di inquinamento da Pm2,5 – affermano nel merito da Greenpeace – A tal proposito è emblematico il nostro studio realizzato in collaborazione con Ispra, che indaga i settori che hanno maggiormente contribuito all’inquinamento da Pm in Italia. Nel 2018 i settori più inquinanti sono risultati essere il riscaldamento residenziale e commerciale (36,9%) e gli allevamenti (16,6%): dati alla mano, insieme questi due settori sono la causa di quasi il 54% del Pm2,5 nazionale. Seguono i trasporti stradali (con il 14%) e le emissioni dell’industria (10%)».

In particolare l’ammoniaca prodotta dagli allevamenti intensivi «costituisce la seconda causa di formazione di polveri sottili – Pm2.5 – che in Italia causano ogni anno circa 50.000 morti premature».

Un problema che non riguarda certo soltanto Milano. Nel merito Legambiente ricorda che nel 2023, secondo l’ultimo report di Mal’aria di città, 18 città su 98 hanno superato i limiti giornalieri di Pm10. Ben 16 delle 18 città si trovano nel bacino padano e 6 sono lombarde(Mantova 62, Milano 49, Cremona 46, Lodi 43, Brescia e Monza 40.

«Da anni con il report Mal’aria di città denunciamo l’emergenza cronica dell’inquinamento atmosferico che soffoca la nostra penisola e che trova, soprattutto in Pianura Padana, la sua area più vulnerabile. Qui a pesare è anche l’effetto degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura – conclude il dg di Legambiente nazionale, Giorgio Zampetti – Si introduca una vera e propria rivoluzione urbana con misure strutturali e integrate che abbiano al centro una mobilità sempre più sostenibile, il trasporto pubblico locale che deve essere maggiormente incentivato, e prevedendo al tempo stesso azioni concrete per contrastare anche le altre fonti inquinanti come riscaldamento e agricoltura. Non si perda altro tempo».

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*LA CRISI DEL MODELLO NEOLIBERISTA, TRA DISASTRI AMBIENTALI E CRITICITÀ ECONOMICO-SOCIALI: IL CASO DELL’EMILIA-ROMAGNA*

Abbiamo deciso di promuovere questo convegno, un importante momento di riflessione collettiva, perché ci appare fondamentale produrre e consolidare un pensiero lungo e strutturato sulle dinamiche economiche, sociali e ambientali che riguardano, in primo luogo, la nostra regione. Non è più credibile continuare, come fa il presidente della Regione, a magnificare la bontà del “modello emiliano-romagnolo”, da prendere a riferimento anche per gli altri territori. Né è sufficiente – se mai lo è stato –  evidenziare come questo modello produca impatti pesanti dal punto di vista ecologico e ambientale e sulla stessa salute delle persone. La stessa connessione tra giustizia climatica e giustizia sociale rischia di diventare un approccio semplicistico e, alla fine, privo di una capacità effettiva di leggere (e contrastare) i processi in atto anche in Emilia-Romagna.

Pensiamo, invece, sia fondamentale mettere in chiaro come tutte le scelte di politica economica, sociale e ambientale siano strettamente connesse. Come esse si inquadrano dentro il pensiero unico e la pratica del neoliberismo, rispetto al quale il “modello emiliano-romagnolo” può prestare maggiore attenzione ad alcuni tratti di solidarietà ed inclusione sociale, ma che, tuttavia rimane inscritto in quel paradigma e ne è tutt’al più una variante. Neoliberismo che, peraltro, oggi attraversa una crisi strutturale, che non implica certamente un suo possibile ripensamento in termini positivi, ma che, senz’altro, fa sempre più fatica a riproporre la sua logica di crescita “infinita”, fondata su produttivismo ed estrattivismo, il primato del mercato e della finanza, la subordinazione ad essi delle questioni ambientali e della conversione ecologica, la privatizzazione dei beni comuni.

Questa riflessione di fondo, che vogliamo approfondire nello svolgimento del convegno, anche con apposite sessioni di lavoro, può diventare anche la leva e il terreno comune su cui costruire convergenze importanti, al di là di occasioni specifiche che rischiano di risultare fragili, per tutti i movimenti e le realtà sociali che sono convinte che occorre progettare un nuovo a alternativo modello produttivo, sociale e ambientale, anche nella nostra regione. E che non c’è molto tempo per farlo.

Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia Romagna

*>>> LINK PROGRAMMA E INFO:

https://www.recaemiliaromagna.it/event-item/convegno17e18febbraio/

17 febbraio ore 9:30-13
Prima sessione
Produttivismo, estrattivismo, finanziarizzazione dell’economia. Un modello di sviluppo che non funziona più nel mondo e in Emilia-Romagna
Modera: Viviana Manganaro, RECA, attivista ambientalista

Alfonso Gianni, direttore della rivista trimestrale Alternative per il Socialismo
Capitale globale e dimensioni regionali

Marco Bersani, Attac Italia
Finanziarizzazione dell’economia e del modello emiliano-romagnolo

Massimo Serafini, ambientalista
Uno sguardo ecologista sulla crisi del modello emiliano-romagnolo

Pier Giorgio Ardeni, professore economia politica dello sviluppo, Università Bologna
Più sviluppo, più consumo. Perché siamo alla fine della corsa (anche in Emilia-Romagna)

Marina Mannucci, attivista diritti umani e ambientali
Crisi climatica, donne, intersezionalità. Storie r-esistenti

Wu Ming 2
Il pugno d’asfalto nel guanto verde. Retorica e devastazione in Emilia-Romagna

17 febbraio ore 15-18:30
Seconda sessione
Clima, Ambiente naturale, Ambiente urbano, Aree interne. Dal disastro annunciato al cambio di paradigma
Modera: Gabriele Bollini, RECA

Federico Grazzini, climatologo, ARPAE Emilia-Romagna
Il cambiamento climatico in Emilia-Romagna

Anna Gerometta, Cittadini per l’Aria
Qualità dell’aria ed effetti sulla salute

Luca Gullì e Margherita Romanelli, Diritti alla Città
Rigenerazione urbana: le soluzioni presenti generano i problemi futuri

Piero Cavalcoli e Gioacchino Piras, Osservatorio Urbano di Bologna
Consumo di suolo in Emilia-Romagna, con un occhio ai temi dell’energia e del clima

Bruna Gumiero, biologa, professoressa Alma Mater Bologna
I fiumi nella riprogettazione delle politiche ambientali

Giulio Conte, biologo, Ambiente Italia, IRIDRA
Il ciclo dell’acqua il governo del territorio

Giovanni Poletti, agronomo
Albero motore, di città (auto) Albero, motore di città (verde)

18 febbraio ore 9:30-13
Terza sessione
Beni comuni: Mobilità-infrastrutture, Energia, Acqua, Rifiuti, Economia contadina, Pace e democrazia. Verso un altro mondo possibile e necessario
Modera: Pierpaolo Lanzarini, RECA, Campi Aperti

Linda Maggiori RECA, attivista e giornalista freelance
Autostrade o ferrovie? Le politiche della mobilità (in)sostenibile in Emilia-Romagna

Leonardo Setti RECA, docente Università Bologna
Per una vera e democratica conversione energetica, basata sulle energie rinnovabili

Corrado Oddi RECA, Forum Italiano Movimenti per l’Acqua
Privatizzazione dei beni comuni ed espropriazione decisionale dei cittadini. Il caso dell’Acqua

Natale Belosi, RECA, Rete Rifiuti Zero
Uso insostenibile delle risorse e politiche dei rifiuti

Antonio Onorati, Associazione Rurale Italiana
Economia contadina, la transizione possibile

Sergio Bassoli, Rete Pace e Disarmo
Pace e democrazia, fondamenta di un nuovo modello produttivo, sociale e ambientale

INFO LOGISTICHE:

ARRIVARE:
La sala di quartiere del Comune di Bologna
è accessibile sia da via Ludovico Berti che da via dello Scalo
https://maps.app.goo.gl/Bt7hHH4i24FUznzC7

Dalla stazione:
autobus 33 (10 minuti) o 35 (14 minuti)
a piedi lungo i viali occidentali (21 minuti)
in auto:
parcheggio nelle vie circostanti il complesso edilizio dove ha sede la sala
A pagamento. App per la gestione della sosta: mooneygo (ex mycicero)

PRANZO:
BIO, kmzero, vegan-friendly organizzato da Campi Aperti
prezzo popolare
info e prenotazioni entro il 10 febbraio: convegno17e18febbraio@gmail.com

ACCESSIBILITÀ:
Piano terra, no barriere architettoniche
Animali benvenuti 

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Vediamo quanto inquiniamo: foto di un pianeta da salvare

Quanto inquiniamo? Più che le parole, a volte, sono le immagini a rendere consapevoli.

Continua su: https://www.arianuovabondeno.com/ambiente-e-salute/#:~:text=Vediamo%20quanto%20inquiniamo%3A%20foto%20di%20un%20pianeta%20da%20salvare

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Impianto di Zerbinate, è battaglia legale

Bondeno, l’azienda Biopig Italia si appella al Tar per annullare la delibera del consiglio comunale che vieta l’ampliamento

Impianto di Zerbinate, è battaglia legale

Impianto di Zerbinate, è battaglia legale

BONDENO

La battaglia tra amministrazione comunale e la società agricola Biopig Italia si sposta davanti sul binario della controversia legale. L’azienda infatti ha scelto di ricorrere al Tar dell’Emilia-Romagna per chiedere l’annullamento di svariati documenti, fra cui la delibera del consiglio comunale di Bondeno dello scorso 26 ottobre con la quale l’assemblea aveva respinto la variante urbanistica per l’ampliamento di un impianto zootecnico esistente sito a Zerbinate. Si trattava dell’iter per la notevole espansione dell’allevamento di suini di Zerbinate: durante la seduta del 26 ottobre 2023, il Consiglio aveva rigettato l’approvazione della deliberazione con i voti contrari dei gruppi Partito Democratico e Bondeno in Testa, il voto favorevole della lista civica Davide Verri Sindaco, e l’astensione degli altri gruppi che compongono la maggioranza.

https://www.ilrestodelcarlino.it/ferrara/cronaca/impianto-di-zerbinate-e-battaglia-legale-51e74700

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Dai fanghi di depurazione al digestato nel biogas: risorsa o problema per salute?

Sito Web: Digestato nel biogas: risorsa o problema per salute? (terredifrontiera.info)

AUTORE:

DONATO CANCELLARA

 11/09/2019

Quanto è realistico pensare al digestato come ad una sostanza utilizzata in piena sicurezza? Ha senso evidenziare la sua natura di concime o quella di sostanza spesso utilizzata senza avere una piena certezza sul livello di inquinamento nei terreni dove viene distribuita? Ecco cosa sta accadendo, anche dal punto di vista normativo, nel nostro Paese.

La non condivisibile decisione del primo governo Conte di prevedere all’articolo 41 del “decreto Genova” (legge n.109 del 28 settembre 2018) spropositati limiti di concentrazione degli idrocarburi pesanti (C10-C40) nei fanghi di depurazione, sia civili sia industriali – consentendone lo spandimento su suoli agricoli – ha aperto più di un interrogativo sul loro utilizzo in agricoltura.
Il limite di 1000 milligrammi/chilogrammo, come già spiegato da Terre di frontiera, è “astutamente” riferito al “tal quale” e non alla “sostanza secca”: significa che si potrebbe riscontrare il limite di 1000 milligrammi/chilogrammo in fanghi contenenti una notevole percentuale di acqua anche se gli stessi, resi secchi – quindi privi di acqua – farebbero registrare una concentrazione decisamente maggiore.
Una previsione normativa che sembra celare un favore legislativo, andando in direzione opposta a quella della maggiore tutela ambientale, rendendo verosimilmente i fanghi più assimilabili a sostanze ricche di “veleni” che a vantaggiosi concimi ricchi di sostanza organica.
Il business dei fanghi dovrebbe far riflettere se si pensa al recentissimo sequestro di 96 tonnellate di fanghi di depurazione da parte del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri in un impianto del Metapontino, in Basilicata, con l’intento, forse, di far diventare la regione una “suggestiva pattumiera” per l’intera Italia.
Ancor più inquietante è il nuovo scandalo sui fanghi di depurazione mescolati con il compost: una vera “bomba ecologica” chiamata ammendante compostato misto, ovvero materiale ricavato dalla lavorazione della frazione umida degli scarti urbani, degli avanzi dell’industria agroalimentare e dei fanghi di depurazione. In genere viene venduto alle aziende agricole e utilizzato come fertilizzante per i propri campi. A confermare la loro pericolosità è un passaggio di alcune intercettazioni raccolte dagli inquirenti, nelle quali si legge che «Qua come c’è un po’ di caldo ci facciamo male»: trattasi, infatti, di sostanze nauseabonde che creano inevitabilmente percolato nei capannoni dove vengono temporaneamente costipate, continuando a “fumare” anche quando vengono trasportate e distribuite sui terreni agricoli o interrate nei campi previo accordo con i proprietari terrieri. Pazienza se si creano «danni irrimediabili e devastanti per l’ambiente e la salute pubblica».
Si legge, inoltre, che il problema non interessava ai titolari del gruppo societario, tanto da cedere a diverse aziende dell’agro-pontino il loro compost “farlocco”, certificato da analisi chimiche falsate, nel quale ai rifiuti organici venivano mischiati scarti di ogni tipo: vetro, plastica, materiali vari e rifiuti speciali a rischio infettivo. Dall’inchiesta si evince che i proprietari dei terreni venivano pagati affinché lo prendessero, così da risparmiare sullo smaltimento. Successivamente erano gli stessi proprietari dei campi che lo seppellivano per poi farci crescere “olivi e granturco”.
L’USO DEL DIGESTATO IN AGRICOLTURA
Una problematica per certi aspetti simile alla questione fanghi di depurazione riguarda il digestato e il suo impiego in agricoltura che, anche in questo caso, viene enfatizzato come concime, quindi come sostanza che rappresenterebbe un valore aggiunto per il settore agricolo. Ma è realmente così?
Il digestato è il prodotto della fermentazione di biomasse convogliate in opportune strutture chiamate digestori (o fermentatori) afferenti ad una specifica impiantistica incentivata da leggi statali. Trattasi di impianti alimentati da biomasse per la produzione di biogas, a sua volta utilizzato per la produzione di energia elettrica (tramite sistema di cogenerazione) e/o energia termica, oppure per la produzione di biometano previa opportuna depurazione che prevede anche la desolforazione.
Ebbene sì, occorre ripulire il biogas anche dall’idrogeno solforato quale gas incolore, ma dalla puzza inconfondibile (uova marce) che può arrecare danni anche a ridottissime concentrazioni e percepibile, con conseguenti molestie olfattive, già a bassissimi valori pari a 0.02 parti per milione. Tanto ci sarebbe da dire sull’idrogeno solforato (acido solfidrico) e sui problemi di corrosione degli impianti ad esso strettamente correlati con conseguenti incidenti già dopo pochi anni di funzionamento. La questione dei rischi e degli scenari incidentali, connessi agli impianti per la produzione di biogas, rende necessario un approfondimento al fine di far comprendere che la parola “bio” è solo un aspetto del processo industriale al quale andrebbe affiancato il rovescio della medaglia rappresentato dal possibile ed altamente probabile inquinamento delle matrici ambientali. Questione, quest’ultima, che potrebbe essere bilanciata solo tramite una impiantistica di ridotte dimensioni (impianto avente una potenza elettrica di circa 100 kilowatt, ndr).
BIOGAS E BIOMASSE
Le biomasse utilizzate per il funzionamento degli impianti di biogas possono essere agricole, zootecniche, industriali, agrozootecniche e agroindustriali, fino ad arrivare all’impiego dei rifiuti urbani ed in particolare al famigerato Forsu (Frazione organica di rifiuti solidi urbani).
Quali sono, quindi, le problematiche connesse al digestato? Si rende necessario innalzare il livello di sicurezza sul suo utilizzo in agricoltura?
Non poche sono le segnalazioni circa l’utilizzo del digestato su terreni agricoli favorendo lo sviluppo di microrganismi dannosi per le produzioni alimentari, con ripercussioni per la salute umana. È indiscutibile che nei digestori, durante la fermentazione con conseguente produzione di biogas, si selezionano comunità microbiche in seguito a fenomeni di competizione e resistenza, soprattutto se il funzionamento avviene in regime di termofilia (> 55 gradi), assicurando pertanto temperature maggiori rispetto al regime di mesofilia (35-37 gradi).
Desta preoccupazione la specie batterica appartenente al genere Clostridium che potrebbe costituire un evidente pericolo per la salute pubblica in quanto associato a casi di botulismo per la sua capacità di generare tossine botuliniche.
In uno studio condotto dall’Istituto superiore di sanità [B. Auricchio, F. Anniballi, A. Fiore et al., Il biogas: spunti per una serena riflessione, Nota ISS, 2014; 27[5]:3-6], si perviene alle seguenti conclusioni: «La produzione di biogas costituisce un’importante risorsa economica per le aziende agricole, che devono però garantire la sicurezza d’uso dei digestati. Desta una significativa preoccupazione la capacità di alcune specie microbiche, in particolare Clostridium botulinum, di sopravvivere in condizioni di anaerobiosi e alle temperature utilizzate nel processo di digestione. Tuttavia, al momento in Italia non è stata dimostrata in laboratorio alcuna correlazione tra i focolai di botulismo e lo spandimento di digestato sui suoli agricoli. Per una completa valutazione del rischio si ritiene necessario e auspicabile affrontare dal punto di vista scientifico alcuni aspetti del processo di produzione del biogas, che contribuirebbero ad aumentarne la sicurezza. In particolare, sarebbe necessario avviare approfondite ricerche volte a: valutare qualitativamente e quantitativamente la composizione delle comunità microbiche che si selezionano nell’impianto in funzione della tipologia del substrato utilizzato; approfondire i rapporti ecologici che si instaurano tra i componenti le diverse comunità microbiche, che popolano i diversi siti presenti nel processo produttivo del biogas, nonché l’eventuale competizione operata da alcune specie nei confronti dei clostridi produttori di tossine botuliniche; valutare l’impatto dei digestati utilizzati come fertilizzanti agricoli sulla flora microbica autoctona del terreno e i loro risvolti sulla fertilità del suolo».
La Danimarca, la Svezia, l’Austria, la Germania e la Gran Bretagna si sono dotate di uno specifico regolamento che obbligano i gestori degli impianti a biogas (estendibile anche agli impianti per la produzione di compost) a prevedere trattamenti di sanificazione dei substrati di biomasse che alimentano i digestori oltre a prevedere specifiche caratteristiche impiantistiche (come ad esempio i pastorizzatori) con mirati e severi controlli microbiologici sul digestato che si vuole venga utilizzato in agricoltura.
Il dottor Gian Piero Baldi, medico Isde e presidente di Bio Ambiente, ha più volte ricordato i rischi per la salute degli impianti a biogas, nonché come gli aspetti microbiologici rappresentano un punto debole del biogas tanto da sottolineare l’importanza di adottare, in Italia, precauzioni molto più stringenti per il trattamento di sanificazione delle biomasse in entrata e dei digestati in uscita.
Per il dottor Mauro Mocci, medico di famiglia e decano dell’Isde, gli impianti a biogas sono da considerare industrie insalubri in quanto trattano anche rifiuti e l’output del processo è, verosimilmente, un rifiuto. Uno dei punti deboli degli impianti a biogas è la fase anaerobica della frazione organica dei rifiuti nella quale non sono utilizzati solo quelli urbani, come spesso sostengono le imprese.
È del tutto evidente la necessità di seri approfondimenti sull’utilizzo del digestato in agricoltura e – in attesa di dati certi circa il suo utilizzo in piena sicurezza escludendo le negative ricadute sulla nostra salute – sarebbe necessario invocare il Principio di precauzione (articoli 3-ter e 301 del Codice dell’Ambiente, in recepimento dell’articolo 191, parte 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea).
Un principio che non si basa sulla disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma sull’assenza di dati che assicurino il contrario. Un principio di buonsenso cristallizzato in una specifica norma da cui deriva l’esigenza di un’azione ambientale consapevole e capace di svolgere un ruolo teso alla salvaguardia dell’ecosistema in funzione preventiva anche quando non sussistono evidenze scientifiche conclamate che illustrino la certa riconducibilità di un effetto devastante per l’ambiente ad una determinata causa umana [cfr. Tar di Lecce, Sez. I – 14 luglio 2011, n.1341].
Tuttavia, qualora un’amministrazione pubblica volesse invocare il Principio di Precauzione, occorre che lo faccia non con un banale e semplicistico annuncio o con una riduttiva ed inefficace invocazione bensì con uno specifico atto motivato e circoscritto al coso caso di specie.
Infatti, l’applicazione del Principio di Precauzione richiede una valutazione quanto più possibile completa dei rischi, che tenga conto dei dati scientifici più recenti e che faccia emergere il pericolo di un pregiudizio significativo per l’ambiente e per la salute dell’uomo. A fronte di una valutazione rigorosa del rischio si potranno adottare le misure strettamente necessarie per evitare un siffatto pregiudizio.
Non è dunque accettabile un approccio meramente ipotetico del rischio, che induca a limitare o vietare determinate attività sulla base di semplici supposizioni [cfr. Urbanistica e Appalti, n.5 maggio 2014, p.551 – Consiglio di Stato, Sezione V, 27 dicembre 2013, n.6250].

Persino sull’inquinamento ‘da puzza’ lo Stato fa le cose a metà per non scontentare nessuno

Persino sull’inquinamento ‘da puzza’ lo Stato fa le cose a metà per non scontentare nessuno

Tra i tanti inquinamenti che ci affliggono, ce n’è uno di cui poco si parla; ma basta guardare le denunzie che arrivano in Procura per capire che è molto più frequente di quanto si pensi.

Si tratta dell’inquinamento da puzza o, per meglio dirlo con il legislatore, da “emissioni odorigene”, che fino a poco tempo fa non veniva neppure preso in considerazione dalle nostre leggi di tutela ambientale. Tanto è vero che nei casi più insopportabili si ricorreva ad un generico articolo (il 674) del codice penale che punisce come contravvenzione chiunque “provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a molestare le persone”; e che, pur se non parla di odori, era stato ritenuto applicabile dalla Cassazione, in casi dove, ad esempio, c’è gente che deve vivere con le finestre sempre chiuse per attutire esalazioni moleste provenienti da manifatture come torrefazioni di caffè o da terreni agricoli abbondantemente ricoperti di concimi e immondi fanghi da depurazione. Per non parlare delle esalazioni da rifiuti giacenti in discariche o per strada.

I principali responsabili dell’inquinamento olfattivo sono sostanze che derivano da decomposizione, escrezioni animali e processi industriali, quali l’ammoniaca, l’acido solfidrico (che odora di uova marce), lo scatolo e l’indolo (odori tipici delle feci) e il dimetil solfuro (che deriva da vegetali decomposti).

Molestie olfattive, l’aria che “puzza” rovina salute e ambiente
CHIAMA i CARABINIERI
CHE PUZZA! (carabinieri.it)

Molestie olfattive, l’aria che “puzza” rovina salute e ambiente

Continua:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/12/22/persino-sullinquinamento-da-puzza-lo-stato-fa-le-cose-a-meta-per-non-scontentare-nessuno/7389989/

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La dura protesta sul biometano. Centrale, la rete dei cittadini:: “La nostra battaglia va avanti”

Residenti e associazioni in assemblea per ribadire il no alla costruzione della struttura “Disagi e impatto ambientale devastanti”. E a protestare c’è anche l’undicenne Ettore.

La dura protesta sul biometano. Centrale, la rete dei cittadini:: “La nostra battaglia va avanti”

“La battaglia contro la costruzione della centrale biometano va avanti”. Si tratta del messaggio emerso al termine dell’incontro pubblico sulla centrale che dovrebbe sorgere a Villanova, tenutasi nella sala del campo sportivo della frazione ferrarese completamente sold out. Un momento di confronto dove si è discusso sul tema ‘centrali biogas-biometano nel nostro territorio’, promosso dal gruppo cittadini ‘No biometaNo’ di Villanova. Un incontro che ha visto la presenza anche di altri comitati: ‘Aria nuova’ di Bondeno, l’associazione ‘Vivere meglio Formignana’ e comitato di Masi Torello, con relazione finale di Gian Gaetano Pinnavaia, della Rete giustizia climatica.

Continua su:

La dura protesta sul biometano. Centrale, la rete dei cittadini:: “La nostra battaglia va avanti” (ilrestodelcarlino.it)

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Biogas nel Ferrarese. Comitati e gruppi avviano un ragionamento trasversale

Biogas nel Ferrarese. Comitati e gruppi avviano un ragionamento trasversale | estense.com Ferrara

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